Elogio al Nepente di Oliena di Gabriele d'Annunzio
Non conoscete il Nepente d'Oliena neppure per fama? Ahi, lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall'ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all'odore; e l'odore, indicibile, basta a inebriarmi. Eravamo clerici vagantes per un selvatico maggio di Sardegna, io,Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, or e’ gran tempo, quando giungemmo nella patria del rimatore Raimondo Congiu piena di pastori e di tessitrici, ricca d'olio e di miele, ospitale tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate. Subito i maggiorenti del popolo ci vennero incontro su la via come a ospiti ignoti; e ciascuno volle farci gli onori della sua soglia, a gara. Ah, mio sitibondo Hans Barth, come le vostre nari sagaci avrebbero palpitato allorché il rosso Nepente sgorgò dal vetro con quel gorgoglio che suol trarvi dal gorgozzule quei "certi amorevoli scrocchi" - parla il nostro Firenzuola! - Avete nel cuore qualcuna di quelle Odi Purpuree di Hafiz che cantano il vino e la rosa? Ci parve che l'anima stessa dell'Anacreonte persiano emanasse dalla tazza colma, col colore del fuoco e con l'odore d'un profondo roseto. Certo, chi beve quel vino non ha bisogno d'inghirlandarsi.
Gabriele D’Annunzio